Nell’ambito della sua lotta menostatista contro le competenze dell’ente pubblico e per la riduzione a ogni costo delle spese statali, la destra ticinese ha proposto il 6 marzo 2017 un’iniziativa popolare intesa a introdurre un nuovo strumento di democrazia diretta: il referendum finanziario obbligatorio (quello facoltativo esiste già). Promotore il deputato Sergio Morisoli, strenuo assertore della supremazia del privato sul pubblico, e avversario di ogni spesa dello Stato che non sia rigorosamente indispensabile: è ovvio che, ad esempio, le spese sociali non rientrano non questa, per gli iniziativisti, ineludibile categoria.

La discussione in Gran Consiglio avvenne nel febbraio 2021. Dopo il preavviso negativo a netta maggioranza sull’iniziativa, il parlamento cantonale ritenne comunque opportuno proporre una sorta di adesione parziale al principio proposto dall’iniziativa: con un aumento degli importi di spesa che implicano il voto popolare (da 20 a 30 milioni per una spesa unica, e da 5 a 6 milioni per le spese annue) e con l’introduzione di una sorta di “ referendabilità obbligatoria “ : votazione popolare se voluta da un terzo dei deputati presenti, ritenuto un minimo di 25 (cioè sarebbe sufficiente una minoranza di parlamentari). Il controprogetto fu approvato di stretta misura: 42 a 38.

Sono quindi due gli oggetti della votazione del 26 settembre: il referendum obbligatorio per spese eccedenti un determinato importo e il referendum proposto dal GC, con modalità che esorbitano dai concetti istituzionali conosciuti nel nostro cantone. Entrambi gli oggetti meritano un rifiuto da parte dell’elettorato ticinese: il primo perché frutto di una politica populista e che stuzzica la tendenza popolare a votare contro una spesa con argomentazioni spesso demagogiche; il secondo perché, nell’intento di giungere a ogni costo a un compromesso, si è introdotto una procedura farraginosa e contraria ai nostri tradizionali principi, che complica un ordinamento oggi molto chiaro.

E’ interessante esaminare la composizione politica dei due schieramenti sul controprogetto: favorevoli la Lega, l’UDC, il MPS, la maggioranza PPD e parte dei Verdi; contrari il PS, il PC e la maggioranza PLR. Il Consiglio di Stato si è pronunciato contro.

In una democrazia semi-diretta vanno attentamente contemperate le prerogative da una parte dei cittadini-elettori e dall’altra degli organi legislativi. Non va dimenticato che questi sono eletti dal popolo il quale, dando la sua fiducia ai suoi rappresentanti, deve pur riconoscere loro una precisa competenza in materia legislativa e finanziaria. Nella nostra fattispecie, sia il referendum obbligatorio sia la soluzione “ parziale “ del GC, non rispettano questo equilibrio in un importante settore dell’attività dello Stato: quello delle spese ingenti, segnatamente delle grandi opere e dei cospicui investimenti annui: la bilancia pende decisamente dalla parte della votazione popolare, a scapito delle prerogative parlamentari.

E’ opportuno quindi che l’obbligatorietà del voto da parte dei cittadini sia riservata unicamente alle questioni di particolare significato dal punto di vista istituzionale: cioè per le proposte di riforma della costituzione. Per quanto attiene alle decisioni di pertinenza del Gran Consiglio, non esiste assolutamente la necessità di privilegiare, con un voto obbligatorio da parte del popolo, un settore dell’attività parlamentare, cioè le spese pubbliche, rispetto ad altri settori, tra i quali quello fondamentale dell’approvazione o modifica delle leggi. Una differenziazione che non avrebbe nessuna valida ragione.

Questo argomento è rafforzato anche da una riflessione sul nostro ordinamento della democrazia semi-diretta. Con il referendum finanziario facoltativo, i cittadini hanno non solo la possibilità di pronunciarsi sulla necessità o meno di una determinata spesa, ma anche sull’opportunità che il popolo si pronunci in merito, dando eventualmente luogo alla raccolta di firme necessarie per sottoporgli il provvedimento deciso dal parlamento. L’attuale ordinamento corrisponde più adeguatamente alle finalità dell’appello alla decisione popolare.

Opportunamente, l’Associazione per la difesa del servizio pubblico ha preso posizione contro questa introduzione (in una forma o nell’altra) del referendum finanziario obbligatorio: “ non costituisce nessun miglioramento, bensì un inutile e pericoloso strumento che metterebbe a rischio gli interventi pubblici “. Tra questi, le spese ricorrenti per i vari servizi pubblici di pertinenza del cantone, la cui importanza e il cui potenziamento, a favore di tutta la popolazione, sono di manifesta evidenza.

Di fronte a queste considerazioni, non vale invocare il fatto che la maggioranza dei cantoni svizzeri conosca questo tipo di referendum. La libertà di darci, quali ticinesi, gli strumenti costituzionali che meglio riteniamo opportuni, non può in nessun modo essere condizionata da esempi relativi a situazioni anche sensibilmente diverse, tanto più che la soluzione attuale del nostro Cantone, legittimata da una lunga esperienza, non tollererebbe una modifica che non appartiene alla nostra cultura politica.

Diego Scacchi